Costanza Sicanie Regina
Sonia Morganti
Capitolo 1
La notte si era distesa su Palermo come una coperta dalla trama fitta. Non c’era luna né si vedevano le stelle, ma quell’uniformità silenziosa era increspata dal gorgoglio armonico delle tante fontane. Qualcuno uscì dal palazzo, allontanandosene a passi cauti e misurati dopo essersi guardato intorno. La sagoma celata da mantello e cappuccio pareva sciogliersi come un’ombra nel buio, per riapparire con i suoi volumi nei pressi di qualche rara luce che filtrava dagli usci.
Ma lui non aveva quasi bisogno di vedere per avanzare nella direzione giusta. Negli anni, aveva percorso quella strada innumerevoli volte, di giorno e di notte, con la pioggia e con il sole, sgattaiolando via dalla custodia svogliata di chi avrebbe dovuto proteggerlo. In fondo, in una di quelle fughe gli sarebbe potuto accadere un incidente e una tale sfortunata circostanza avrebbe risolto più di qualche problema, a Palazzo.
Invece aveva continuato ad assentarsi, a gironzolare per la città; era cresciuto imparando anche a sopravvivere. E sarebbe stato in grado, solo seguendo gli odori, di trovare la direzione per raggiungere quella che aveva amato come una famiglia.
Ogni quartiere di Palermo si distingueva per un aroma dominante e lui era persino riuscito ad amare quel miscuglio che all’inizio gli faceva arricciare il naso: liquami e cannella, zagare e pescato; le spezie e la salsedine segnavano la via verso il porto come una strada invisibile.
Febbraio era un mese troppo freddo e buio e c’erano sere, come quella, in cui avrebbe preferito lasciarsi fagocitare dal ventre generoso della città e dimenticare il proprio destino, dormire nelle reti piegate, come un granchio prigioniero ma felice. Qualcosa di più forte però lo chiamava. Era quel che gli spettava per nascita, il ricordo degli anni di gelida solitudine e il nome della madre, che continuava ad accompagnarlo come un talismano: Costanza.
Quando lei morì, lui era troppo piccolo per comprendere perché tutta la sua vita stesse capitombolando a testa in giù. Ma poter avere un’istruzione da nobili precettori e riceverne un’altra dalla strada gli aveva fatto capire presto come funzionassero le cose del mondo.
Era stato proprio quel nome, quello con cui tutto era finito, che forse avrebbe dato la scintilla a un nuovo inizio. Era un pensiero che lo turbava: suscitava speranze e, per gli stessi motivi, fastidio e timore. In certi casi, pensava, c’è bisogno di una mamma con cui parlare. Ed era proprio ciò che aveva intenzione di fare quella notte.
Così si avvicinò, mantenendo il suo fare furtivo, e bussò con delicatezza a una porta di legno raschiata dagli anni, dall’umidità e dalla salsedine. Un lieve chiarore filtrava dalle fessure tra le travi e il suolo: la padrona di casa era ancora sveglia. Amina dormiva sempre poco, persino meno di lui. La porta fu socchiusa da una mano segnata dal lavoro e, nonostante l’oscurità, la sorpresa si disegnò sul viso non più giovane, ma ancora bello, di una donna.
«Ommi!» disse lui. «Fammi entrare, dai!»
Riconoscendo la voce, Amina sussultò e si affacciò all’ingresso.
«Che ti è successo?» gli chiese. Circospetto, il ragazzo chiuse la porta, sgattaiolò all’interno e, con la sicurezza del padrone, andò subito a sedersi al tavolo.
«Nulla, ommi!» le rispose, sorridendo «Avevo solo voglia di vederti e stare un po’ con te!» Amina sciolse la perplessità nel più dolce dei sorrisi. Il tratto di polvere scura che le disegnava il contorno degli occhi rendeva più intensa e calda la gioia che traspariva dal suo sguardo. Sospirò e si sedette accanto a lui.
«È tanto che non ti fai vedere. Un po’ temevo per te, un po’… speravo per te.»
«Le cose stanno cambiando in fretta» rispose.
«Qualche notizia arriva anche a noi. Amici o nemici del Papa, tutti vogliono il potere!»
Amina, con una familiarità che, tra le mura del palazzo normanno, forse nemmeno alla madre di sangue sarebbe stata concessa, gli pizzicò la guancia.
«Basta, ommi! Ormai sono un uomo!» protestò lui.
«Avrai pur compiuto la maggiore età, ma queste sono rimaste da bambino» ribatté scherzosamente, indicandogli le gote «Penso che non le perderai mai.»
Rimasero un attimo in silenzio. Dopo l’ebbrezza felice del rivedersi, era salita come nebbia la riflessione sulle loro differenze e sul loro condividere.
«Questa sera Ahmed non rientra?» chiese lui.
«No, è per mare. La luna non si vede. Farà pesca grossa.»
«Non mi ha mai voluto portare con lui. Che pessimo amico!» si imbronciò lievemente, non lasciando intendere se sul serio o per celia.
«Non ti avrebbe mai messo in pericolo. Sei Re di Sicilia e Duca di Puglia, non puoi dimenticarlo. Nemmeno quando vieni da noi.»
«Avrei potuto imporglielo, quindi!» esclamò lui, sconcertato «Avrei dovuto pensarci!»
«Non l’avresti fatto mai, invece. Siete cresciuti come fratelli…» Amina abbassò lo sguardo, colpita dalla punta amara del ricordo. I primi anni di vita di suo figlio e di quel bizzarro cucciolo regale – mezzo svevo, mezzo normanno e a lungo in parte randagio – si erano intrecciati in maniera imprevista, ma erano ormai erano parte del passato. I bambini crescono sempre troppo in fretta e l’infanzia, forse, è solo un’illusione delle madri…
«Hai fame?» gli chiese.
«Ommi, se tu avessi ancora qualcosa, mangerei volentieri…»
«Non riesco a credere che… ma no, che dico? A Palazzo puoi avere ogni delizia. Però la tua ommi è l’unica che ti cucina certe leccornie semplici e buone.»
Lui le sorrise e gli occhi, sospesi tra l’azzurro e il verde freddo, sorrisero con lui.
Amina si alzò, portando una mano alla schiena. L’età iniziava a farsi sentire, anche se non sapeva con esattezza nemmeno i suoi anni. Tolse il coperchio a una scodella piena di arance e mele tagliate, vi aggiunse una manciata di uva passa da un barattolo e qualche goccia di salsa. Afferrò la ciotola con una mano, una lucerna con l’altra e pose tutto davanti al ragazzo. Lui appariva sereno, ringraziò e, senza aggiungere altro, iniziò a mangiare con l’appetito sano dell’adolescenza.
Lì al porto non c’era mai vero silenzio, ma il rumore della risacca addomesticava ogni suono. Le grida dei pescatori, i sussurri degli amanti, i latrati dei cani e le zuffe dei gatti: tutto veniva coperto da quel cantico rotondo. Nella piccola casa di Amina, la donna che spesso l’aveva accolto e accudito come un figlio, il signore della città, pupillo del Papa, tanto giovane quanto nobile, mangiava di gusto come se avesse trascorso il pomeriggio a inseguire l’amico Ahmed. A un certo punto, posò il cucchiaio e alzò lo sguardo. Più tranquillo e lucido, aveva bisogno di parlare e lo fece.