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La festa della sconfitta

Alma Lonardi

22 settembre 2018

Mi chiamo Leon.

I miei genitori hanno pensato fosse un bel nome. Mia madre in realtà, non so.

Leon è un bel nome ma non credo mi si addica. Sempre meglio che Leone, sia ben chiaro.

I miei genitori volevano chiamarmi Leone. Cambiarono idea quando mi videro per la prima volta. Me ne stavo lì, sul grembo di mia madre, zitto, zitto. E allora lei fa: ‘Leone non va bene, non mi piace più.’ Lo ricordo come se fosse ieri.

Cioè, ricordo quando me lo raccontarono per la prima volta, un po’ ridendo e un po’ no. Eravamo seduti a tavola, io, mio padre e mia madre. Avevo otto anni. Si fece un tale silenzio, poi.

Quando sono nato non ho ruggito. Per questo i miei genitori decisero di chiamarmi Leon. Un nome più delicato, direbbe mia madre.

Più opaco, direi io.

Le persone che non mi conoscono dicono che sono apatico. Tutto perché, prima di rispondere a un quesito, rifletto. Dopo aver riflettuto, molte volte non rispondo. È relativo, dico. E la gente pensa che io non abbia un’opinione, che stia cercando di salvarmi da una situazione imbarazzante. Sbagliato. Sbagliatissimo. Io ho sempre un’opinione.

Solo che anche gli altri hanno opinioni, e per me non è un problema che la pensino in modo diverso. Non so bene come spiegarmi. Tante volte evito le discussioni perché so già che il mio interlocutore pretenderà di avere ragione. E non solo. Pretenderà anche che io difenda con le unghie e con i denti le mie idee. Altrimenti, come farebbe a imporre il suo pensiero? Non si impone nulla senza resistenza.

E qui sta il problema. Che io non credo necessariamente di avere ragione. Io penso delle cose. E penso, come è ovvio, che siano giuste. Ma solo per me.

So che tutto questo discorso sembra una banalità, eppure ancora mi sorprendo quando le persone si ostinano a discutere di cose come la politica, o la religione. Argomenti in cui mai nessuno avrà ragione. Discussioni senza senso, senza capo né coda, solo una lotta per imporre la propria visione del mondo, che è relativa, capite, completamente relativa! Assisto a questi scambi dialettici e mi verrebbe voglia di sbraitare, ‘Avete ragione entrambi, idioti!’

Mi capita, allora, ascoltando due opinioni opposte, che mi sembrino giuste entrambe. Confusione più totale. Io ci rinuncio. Rimango con le mie idee zitte zitte, in silenzio nella mia testa. Non cercate di convincermi.

A nessuno frega nulla di quello che ho da dire, e hanno perfettamente ragione. Anche a me non frega nulla della loro opinione. Sono solo opinioni, abbiamo ragione tutti, davvero, non ho voglia di discuterne, hai ragione tu.

Sbagliamo tutti, davvero. Tutti crediamo di sapere e invece non sappiamo nulla. Ma di questo ha già trattato Socrate in abbondanza, e io non mi ci dilungo. Certo non reggerei il confronto.

23 settembre 2018

Quando ho sbattuto per la prima volta la testa sulla vita, all’inizio non ho saputo bene che farmene di quello stordimento.

Pam! E poi silenzio. Pam! La vita.

Quando i miei genitori mi hanno imposto delle sedute dallo psicologo non mi sono arrabbiato. Loro pensano di sì, in realtà no. Mi diverto, il più delle volte mi piace andarci, mi piace invertire i ruoli senza che il mio interlocutore se ne accorga. Cerco di psicanalizzarlo io, cerco di andare oltre quell’impenetrabile espressione seria che tiene tutto il tempo mentre parlo. Ho l’impressione di metterlo in imbarazzo, qualche volta. Penso sia per questo che mi ha imposto di scrivere i miei ricordi. Così parlo meno.

Qualche volta mi capita di scrivere, e cose interessanti mi pare. Scrivo e mi compiaccio. Ma quando leggo parole scritte da altri, da professionisti del mestiere si intende, beh, allora penso che è tutta un’altra storia. Una volta stavo per scrivergli una lettera, a uno di quegli scrittori che mi piacciono tanto. Ce l’avevo già tutta in mente, parola per parola, e scorreva così bene, bastava solo scriverla, davvero, scriverla e poi inviarla. Tempo qualche giorno e lo scrittore mi avrebbe di sicuro contattato per le mie grandi doti di prosatore. Proprio una gran lettera.

Peccato sia rimasta nella mia testa. Vedere quelle parole scritte su un foglio, non so, mi sembrava che non fosse il loro posto, cioè, erano così perfette ma solo perché abitavano nella mia mente e avevano la musicalità e il tono che gli assegnavo io. E la voce che volevo anche. Che, per la cronaca, non era la mia, la mia voce non mi piace. Era piuttosto una bella voce profonda e calda. Banale. Ma in ogni caso, tutte chiacchiere, tutte scuse. Tanta retorica per nulla. Il succo della lettera era:

Mi piace molto come scrivi.

Anche io scrivo, ma come scrivi tu è tutta un’altra storia. Non smettere di scrivere. Grazie.

Quando vedo il mio vecchio gatto dormire penso sempre che sia morto. Non lo so.

Il fatto è che scrivere mi pone in una condizione scomoda. Non mi piace tanto pensare, ma se scrivo mi costringo a farlo. Così, quando ho finito mi sento un po’ meglio, perché ho avuto modo di riflettere. Ma non è una cosa che mi diverte, il fatto di stare lì e scandagliare i meandri del mio cervello. Peggio di una maratona, davvero. Per questo sono rare le volte in cui scrivo e, quando lo faccio, spesso è perché sono triste. Sono triste e allora mi costringo a pensare, credo funzioni così. E funziona.

Non so quanto ne valga la pena.

Comunque sia, dicevo, qualche tempo fa ho tirato la mia prima testata sul muro dell’esistenza. Non ho sentito neanche tanto male. L’adrenalina, si dice. L’adrenalina cancella ogni dolore, ma poi te ne accorgi eh, te ne rendi conto dopo, e poi vedrai che soffrirai! Così mi dicevano tutti, e sembrava che volessero consolarmi con queste parole. Non preoccuparti, prima o poi starai male anche tu. Cristo.

Povero Cristo, pensavano. Ma io ero solo stordito e non sapevo che farmene. Sul serio. Poi mi è passato anche lo stordimento e allora ho cominciato a ragionare su chi fossi

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La festa della sconfitta

Alma Lonardi

La festa della sconfitta
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Leon è un ragazzo di 20 anni che si trova ad affrontare per la prima volta il suo complesso mondo interiore. A seguito di un evento traumatico viene costretto dalla famiglia a frequentare uno psicologo, il quale gli impone la scrittura di un diario. Leon ne approfitta dunque per raccontare le varie fasi della sua crescita, e in particolare la storia del del suo gruppo di amici, nato fra i banchi di scuola.

Un evento allora considerato insignificante sarà invece l’inizio di tutto e lo porterà a conoscere Giorgio, ragazzo inquieto e complesso, con il quale instaurerà un rapporto speciale.

Fra continui viaggi introspettivi, ricordi e parentesi di presente, Leon riflette sulla sua vita e sulla sua persona ed impara a mettersi in discussione. Analizzando a posteriori gli avvenimenti del suo passato, arriva a definire infine le dinamiche che hanno portato all’epilogo.

L'autrice

lonardi

Alma Lonardi è nata il 28 gennaio 1997 a Verona.
Ha partecipato per due anni consecutivi al Festival del Cinema di Venezia in qualità di giuria giovane e di ospite.
Laureata in Lingue e Culture per l’Editoria, attualmente frequenta il corso di Laurea Magistrale in Editoria e Giornalismo nella città natale.


Perché l'abbiamo scelto

È molto raro trovare espressi con tanta chiarezza, attenzione e verosimiglianza le situazioni e i sentimenti presenti in questo libro.

L'autrice è giovanissima, ma dimostra grandi potenzialità. La storia è sviluppata molto bene e la scrittura è già di buon livello: l'espediente del diario scritto dal protagonista non è nuovo, ma è utilizzato al meglio e riesce nel doppio scopo di raccontare con un livello di introspezione maggiore e uno stile realistico e verosimile le vicende del protagonista, e di tenere in sospeso il lettore fino alla fine.

Interessante per chi si approccia per la prima volta a un racconto di amicizia e depressione, La festa della sconfitta può essere anche in qualche modo uno strumento catartico per chi, invece, ha più familiarità con i temi.