Percorro il viale di ghiaia e vado verso di lei.
Non faccio rumore.
Quando la raggiungo nella sua zona d’ombra le chiedo:
"Ma non sei dunque caduta dalla Torre?"
Lei non mi risponde perché è solo un’immagine riflessa in un grande specchio.
Trottano, trotterellano le tre bambine.
La quarta è quella che non ricorda.
Trottano, trotterellano.
E credono di conoscere la meta.
Giovedì, 9 novembre 1990. Sono le ore 7.00
Apro gli occhi. Emergo dai sotterranei del buio.
Il sollievo è grande perchéquesta notte Mariotta non mi ha fatto visita.
Mariotta è il mio incubo tridimensionale e feroce che mi fa gridare al risveglio e mi ricopre il corpo di un sudore freddo. Mariotta è il mio sogno inconfessabile che mi raggiunge da chissà quali pertugi segreti dell’infanzia.
Questa notte però non si è presentato all’appello e ha lasciato il posto ad altri inganni più benevoli.
"Ho sognato Rimpianto", dico a voce alta rimanendo sdraiata senza controllare che sia sveglio anche lui.
Ci separa la distanza dei nostri due letti singoli: da quando siamo venuti ad abitare nel nostro appartamento parigino, arredato di tutto punto, abbellito da boiseries di stucco bianco ma privo di un letto matrimoniale, dormiamo su letti separati.
E per fingere che dopo tutto non ci sia niente di strano ci scherziamo sopra.
"Abbiamo letti separati come le coppie dei film hollywoodiani", gli ho detto una sera che lui mi guardava perplesso.
"Letti rigorosamente singoli", ha sospirato lui.
Da allora li chiamiamo letti dissociati e non ci è mai venuto in mente di accostarli l’uno all’altro. Siamo troppo pigri.
Rimango sotto le coperte: non mi va di sollevarle, di piegare le gambe e di mandare in avanscoperta i piedi nudi alla ricerca delle pantofole.
La pioggia che mi ha svegliato picchiando a tamburo contro le imposte ha intanto perso la sua forza violenta, è diventata solo un fruscio, e dalle fessure dei battenti la luce arriva lenta come un fiato debole.
"Questa notte ho sognato Rimpianto", gli ripeto. E lo guardo.
Si gira verso di me e, con la voce ancora impastata di sonno, mi chiede:
"Ah sì? E cosa faceva?".
"Cosa ti aspetti che faccia un gatto?"
"Mah, dipende… C’è gatto e gatto… Ce n’era uno con gli stivali che non faceva altro che correre… E ce n’era un altro che sorrideva e poi spariva… Il tuo, anzi il nostro Rimpianto, cosa faceva? Faceva il sonnambulo come te?"
Per un attimo sento freddo e vorrei dirgli "Abbracciami!"
Invece "E’ successo anche stanotte?" gli chiedo sperando che mi dica di no.
Ma lui conferma: "Sì, mi hai svegliato".
"Sempre lo stesso?"
"Sempre lo stesso: hai aperto e chiuso la porta del bagno con la chiave. Come al solito", mi risponde tranquillo come se volesse proteggermi dalla mia stessa paura. Poi torna a chiedermi con uno sbadiglio:
"Allora? Cosa faceva Rimpianto?".
"Miagolava."
"Oh, be’, tutto qui?"
Sembra deluso. Si aspetta sempre molto da me, di giorno e di notte.
"Ci pensi mai a lui?" gli chiedo.
"Certo," mi risponde voltandomi la schiena, "ma penso che stia meglio di me."
"Che voce che hai! Ti sei preso il raffreddore!"
Non mi risponde. Sa dove voglio andare a parare.
Si mette a sedere, un potente starnuto, uno sguardo obliquo.
"Che ore sono?" mi chiede perplesso. La velocità o la lentezza che il tempo - questo despota bizzarro e imprevedibile - sceglie nel suo percorso, gli provoca sempre una genuina meraviglia.
"Le sette,credo…"
L’orologio a sveglia che tengo sul mio comodino me lo conferma dopo che gli ho dato un’occhiata svogliata.
"Allora vestiamoci, su, o perderemo l’aereo", mi incita con energia. E torna a coricarsi di nuovo infischiandosene dell’incoerenza.
"E Rimpianto?"
"Rimpianto era un gatto, non è più un gatto e non è più un rimpianto", mi dice.
"Però tu, tu ogni tanto…"
"Cosa?"
"Tu ogni tanto ci pensi."
"Al gatto?"
Solleva la testa arruffata e mi guarda preoccupato.
"No, al rimpianto."
"Il rimpianto è cosa da vecchi e io non sono vecchio! Non del tutto. Non come pensi tu!" dice, e appoggia di nuovo la testa sulla morbidezza del cuscino.
"Se tu avessi dei figli, ti accompagnerebbero loro a ricevere il tuo premio e sarebbero una compagnia più piacevole di me."
"E lo farebbero volentieri? Non credo. Alzati, sii buona, alzati e fammi il caffè."
"Neppure io ti accompagno volentieri! E poi oggi tocca a te preparare la colazione."
Eccolo qui il momento più terribile del giorno: cerco di non guardarlo mentre si siede sulla sponda del letto e rimane fermo per un po’, come in attesa di qualcosa, come se volesse raccogliere le forze per mettersi dritto in piedi. E’ invecchiato, ma sembra non saperlo. Ha il cuore affaticato, ma si rifiuta di accettarlo. Aspetterò che vada in bagno per alzarmi a mia volta: non voglio vederlo. Solo quando uscirà rinnovato dalla doccia, solo allora potremo fronteggiarci in cucina con le tazze del caffè bollente nelle mani e un sorriso di incoraggiamento reciproco.
Fiammetta ha perduto i ricordi dell'infanzia ed è afflitta da un incubo ricorrente dal quale né il dottor Baum né il marito Nicola sanno liberarla.
Scrittore di favole, arguto e comprensivo, Nicola la convince a tornare nella sua città natale con il pretesto di un Premio Letterario alla carriera. Nell'arco di tre giornate, l'ultima delle quali una caldissima e onirica Estate di San Martino, Fiammetta ha un drammatico incontro con Riccardo, un amore dei tempi dell'Università, e recupera parzialmente la memoria: affiorano dal passato le bambine Elisa, Giovanna e Mariotta, il linguaggio cifrato del "PA" , la Torre del Castello sempre chiusa a chiave, il bambino nano e la donna nera.
In un gioco pericoloso in cui realtà e fantasia si scambiano le parti, Fiammetta ritroverà se stessa. Forse.
Nadia Bertolani, nata a Mantova, vive in provincia di Parma. Ha insegnato Lettere nell’Istituto d’Arte di Parma e ha pubblicato interventi e recensioni in cataloghi d’arte e in pubblicazioni di poesie.
Nel 2002 ha pubblicato il suo primo romanzo L’uccellino di Maeterlinck, Tre Lune edizioni.
Sul sito ilmiolibro.it sono presenti i romanzi Di pietra e di luna, 2011, Brumby, l’orizzonte degli eventi, 2012, Mariotta, la quarta bambina 2015 e Perdersi, 2019.
Vincitrice della Seconda Edizione del Concorso “La Parola alle Donne” con il racconto “Toccata e fuga”, terza classificata alla Decima Edizione del Premio “Il Delfino” con “Oroscopi nella notte e un mucchietto di sabbia”, è stata segnalata al Concorso “Guido Gozzano” per “Il Bar del Porto e la fatamorgana”.
Romanzo vincitore del concorso "Indiebook Go 2016"
Mariotta la quarta bambina è un romanzo completo, maturo e profondo, scritto da una penna colta e preparata quale dimostra essere quella di Nadia Bertolani.
Una storia che fa della semplicità la sua forza, dell'intimità il suo cuore, di un'ombra misteriosa un motore discreto ma potentissimo.
Personaggi veri, emozionali, e parole mai scritte per riempire pagine, concludono il ritratto di un romanzo che merita di essere letto.
Fiammetta, la protagonista, ormai adulta e sposata con uno scrittore di libri per bambini, si trova costretta a lasciare il suo protettivo nido parigino per tornare nel suo paese d'origine, abbandonato all'età di otto anni, per seguire il marito insignito di un premio letterario.
A Torralta, in un mondo provinciale che sente estraneo e ostile, deve fare i conti con il suo vissuto, con antichi legami e un'infanzia che ha lasciato strascichi e incubi nella sua quotidianità.
Di colpo affiorano alla sua mente ricordi sepolti, un mistero che non era riuscita a dipanare e che riaffiora frequentemente nei suoi sonni tormentati, un senso di colpa che tenta di sedare con l'aiuto dell'analisi e degli ansiolitici, immune anche alla comprensione di un marito attento e sensibile.
Nadia Bertolani è abile nel costruire una storia che vive in due piani temporali, il presente e un lontano passato che procedono in parallelo, fino alla collisione finale, una catarsi che permette alla protagonista di fare pace con se stessa.
La scrittura classicheggiante, arguta e ricca di sfumature, fa di questo romanzo un piccolo gioiello, uno dei migliori esempi di quel mondo della letteratura "indipendente" che meriterebbe maggiore visibilità.
Il libro coinvolge già dalla copertina: un volto angelico e inquietante, nel contempo, di una bimba che ti invita a un “resti tra noi” col suo ditino posto sulle labbra in segno di tacere (il nemico ti scolta); e si vorrebbe tacere davvero su questo racconto intimo di una bambina cresciuta suo malgrado per affrontare la vita col suo pesante bagaglio esistenziale. Un invito che travalica la finzione letteraria e ti costringe a sederti al posto del dottor Baum per ascoltare in silenzio il suo flusso di coscienza. Non sto scomodando per piaggeria Joyce, ma mi piace ricordarlo per la sua stupenda lezione sull’autocoscienza; una tecnica letteraria estremizzata nel suo capolavoro, l’Ulisse, della quale pare si sia persa la traccia negli scrittori di successo di questi ultimi anni. Nadia Bertolani se ne avvale con un tono più soft, più discreto, intendo; quasi a non voler ‘disturbare’ il limite del lettore occasionale, di quelli che non perdono un Volo, per esempio. Lo fa con una volontaria leggerezza di penna – un naif evoluto – laddove affiorano i ricordi infantili, mentre diventa più articolata e, giustamente, cerebrale nel narrato delle sua maturata età di signora nevrotica; dove, quest’ultimo etimo (ah, l’etimo!), è da considerarsi nell’uso meno patologico del termine: di chi si dimostra ansioso, fragile di nervi; ma con una grande capacità di autoironia, o autolesionismo mi verrebbe da dire. Una stupenda commistione tra realtà sognata, quella vissuta e quella scritta da una donna realizzata a metà; l’altra parte vive nei sogni (deliri) con un sonnambulismo costante risvegliato solo da un marito avvezzo a raccontare favole alle bambine, come un padre(?) seduto ai piedi del letto. Di fronte, questa volta. E, se è di fronte, lo si può solo ammirare per la sua capacità dialettica; non certo immaginare un rapporto fisico, altrimenti noto come transfert.Questo, per la gran parte del libro. Poi bisogna farsi da parte e cedere di nuovo la seggiola al dottor Baum, perché è evidente che la nostra capacità di leggere si limita ai segni neri sul foglio (patto finzionale, per dirla con Umberto Eco) mentre quella dell’inconscio spetta a lui, il dottor Albero, che sentenzia: amnesia lacunare. E noi a correre su Wikipedia per accertarci dell’esistenza di una simile patologia, in parte perché sospettiamo che sia ancora una finzione della Fiammetta/Mariotta, in altra per accertarci che sia vera e poterla applicare anche a una nostra personale debolezza della funzione mnesica. Anche se Fiammetta ci aveva già parzialmente rassicurati: “… Il tempo si arrotola, si confonde, il prima e il dopo si danno la mano e si scambiano i ruoli. Forse nel mondo esiste una lingua che non ha tempi verbali, forse da qualche parte ci sono popoli che non hanno bisogno di fare chiarezza…” Non c’è dubbio che questo racconto possa essere colto appieno solo da una generazione. Quella successiva, però, può certamente restare incantata da un fluire magico di parole appropriate, mai pedagogiche. Un eloquio discretamente referenziale, tipico di una generazione smarritasi poco prima del grande avvento: l’immaginazione al potere; non più autorizzata a indottrinare qualcuno, comunque.
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