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La Torre Eiffel non esiste

Elisabetta Atzori

Capitolo primo.
La mummia col pigiama rosa.

Ci svegliano alle quattro del mattino e ci radunano al piano di sotto, ci dicono di stare tranquilli, c’è stato un problema in alcune delle camere, tra poco tornerete a letto. La verità è che alcuni di noi non dormono e quando sentono arrivare l’ambulanza iniziano ad agitarsi e a svegliare gli altri. Per questo ora siamo qui. Perché vogliono evitarci il trauma. Per noi che non riusciamo a vivere, che non sappiamo scegliere. Ma ci siamo abituati. Sappiamo come fare. Sappiamo che ci hanno radunati tutti, che siamo tutti qui meno la persona per cui l’ambulanza è stata chiamata. Sono le tre del pomeriggio e mi preparo per un funerale. Celeste è morta. Arresto cardiaco. L’ennesimo e l’ultimo. Dal primo piano dell’edificio scendiamo le scale in silenzio, tutti insieme, e andiamo nella sala al piano terra. Quella con le finestre che danno sul giardino. La signorina Adele ci lascia scendere di nascosto dagli altri. Quindi siamo tutti qui davanti, in silenzio, a guardare gli infermieri che trasportano una barella con sopra un cadavere coperto da un lenzuolo. Prego che non sia Celeste. Non so perché non sono stati più attenti, ho sempre immaginato un riguardo particolare nei confronti dei morti, invece alla prima folata di vento, poco prima di mettere le sue spoglie dentro la sacca nera, il lenzuolo bianco è volato via. Sulla barella, il corpo deformato di Celeste, scheletrico. La pelle grigio bruna, raggrinzita come quella di una mummia, una mummia col pigiama rosa, pochissimi capelli e neanche più un dente. Celeste aveva trent’anni. E quasi quindici li aveva passati a lottare contro l’anoressia. Aveva trent’anni e un aspetto devastante, devastato. Mesi e mesi trascorsi a dirle che poteva ancora farcela, che poteva guarire e a volte pareva crederci davvero. Sono le tre del pomeriggio e sto ferma qui, stordita dai sonniferi che ho ancora in circolo nel sangue da ieri notte, sdraiata nella vasca da bagno, con la camicia bianca e i pantaloni neri, vestita da uomo. Conciata anche oggi da qualcuno che non sono. Pronta per il funerale di Celeste. Sento bussare alla porta. È Andrea. Mi chiede come sto, se ho molto sonno, se ce la faccio. È elegante, impeccabile, io sembro la sua caricatura.

‹‹Vieni vestita così?››

Sarebbe meglio se indossassi il vestito nero e raccogliessi i capelli. Non ne ho voglia ma non ho voglia nemmeno del contrario. Sono stanca e ho una brutta nausea. Ma oggi la verità ci ha raggiunti e ci ha assassinati. Oggi cade ogni nostra maschera e restiamo soli. Inermi.

‹‹No… pensavo di mettere il vestito scuro. Aiutami a uscire dalla vasca…››

Mi sorride. Ora siamo pronti. Tutti quanti. Vestiti di nero, all’inglese, come piaceva a Celeste. E insieme attraversiamo il giardino e il viale alberato. Come macchie nere con sotto il pigiama rosa.

Capitolo secondo.
La contessa.

Il funerale è presente anche la contessa.

Non conosco il suo vero nome. Quando arrivai lei era già qui da molti anni, nella stanza sedici, al secondo piano. La contessa ha dimenticato, è qui perché la sua vera storia è persa. Io arrivo in estate. Mi indicano una donna. La chiamano la contessa, e ridono. Mi ritrovo a osservare questa signora anziana, ben vestita, truccata e immobile. Rigida nella sua eleganza. L’unica nota stonata sono le unghie sporche. Nere. A lei non si avvicina nessuno. Mi dicono: non stringerle mai la mano. E ridono, ogni volta. La contessa è elegante, è pacata, è sola di una solitudine abominevole. Palesata a tutti, ignorata dai più. Scopro che è diventata così dopo la morte del marito, dopo l’abbandono del figlio. Il resto penso di averlo immaginato. Una mattina si è svegliata, non ha più sopportato il dolore di questa vita e ha scelto di viverne un’altra. Una vita in cui il marito e il figlio verranno a trovarla nel pomeriggio di un sabato che non può esistere. Ho parlato con lei molte volte, di letteratura francese e di buone maniere a tavola. Lei sorride e arrossisce spesso. Continueranno a schernirla come lei continuerà a non rendersene conto, a non notarli nemmeno, forse perché fanno parte di quel mondo che per lei non esiste più. E così non esistono neanche loro. Le unghie sono sempre nerissime. Passerà molto altro tempo ancora prima che io scopra che non sa pulirsi da sola. Ogni mattina si alza all’alba, si veste, si trucca ma non si sa lavare. Tutti i giorni si sporca le unghie con le sue stesse feci perché non si sa asciugare. Continueranno a dire: non stringerle mai la mano. E rideranno ancora di più. Ogni volta.

esci

La Torre Eiffel non esiste

Elisabetta Atzori

La Torre Eiffel non esiste
Leggi l'anteprima

Giulia ha quasi trent’anni e della vita non sa niente. Quando la dimettono dalla clinica nella quale è ricoverata decide di andare a vivere con Andrea, il suo ragazzo, in un appartamento nello stesso condominio dove vive la sua migliore amica, Clara, nella loro cittadina. Per provare ad avere una vita normale. Ma il senso di alienazione ed estraneità che prova costantemente non l’abbandona.

Così, tramite il suo sguardo disilluso e onesto, vediamo un mondo che rifiuta la diversità, l’imperfezione, che considera la malattia mentale come vizio, vergogna, tabù, a partire dalle loro famiglie. Quella di Giulia, semplice e misera, tenuta in piedi dalla zia, Rita, donna di fede, e quella di Andrea, più benestante, rigida e patriarcale. Vediamo una società imbarazzata dalla pazzia, totalmente impreparata, incapace di gestirla.

Perché dalla chiusura dei manicomi con la legge Basaglia del 1978, quando i “matti” sono tornati nelle loro case, non è cambiato poi molto. La gente ha continuato a far finta che i malati non esistessero. Ma lo sguardo di Giulia, rimasto a lungo lontano dal mondo, è per questo motivo differente, originale, imparziale, estraneo alle contaminazioni della massa. Puro. E a suo modo, in fondo, pieno di speranza.

L'autrice

Elisabetta Atzori è nata a Oristano nel 1993. Ama pensare di far parte degli ultimi figli del secolo, e trova questo pensiero piuttosto poetico. Vive in Sardegna. Ha frequentato il Liceo Classico. Nel 2017 Remo Bassini segnala sul suo blog su “Il Fatto Quotidiano” l'incipit di quello che diventerà il suo romanzo d'esordio, incentrato sul tema della malattia mentale: “La Torre Eiffel non esiste”, disponibile su Amazon.


Perché l'abbiamo scelto

Elisabetta Atzori è giovane, ma dimostra già una grande maturità nella scrittura. Le tematiche affrontate in questo libro sono molto delicate, ma l'autrice le sa maneggiare con la giusta sensibilità, oltre che con una conoscenza della materia che traspare chiaramente durante la lettura.

È un libro che prende il lettore: ci si commuove, si gioisce, si partecipa emotivamente e si resta appesi alla pagina per sapere come si risolveranno le - a volte complicatissime - situazioni che la giovane coppia di protagonisti si trova ad affrontare. E ci si avvicina a un tema, quello dei disturbi o delle malattie mentali, su cui - se non ci riguarda direttamente - non ci si sofferma, o che si tratta con la superficialità che dimostrano alcuni dei personaggi secondari o di contorno di questo libro.

Ottima scrittura, bellissima storia, grande sensibilità e attenzione su un tema non facile: per queste ragioni La Torre Eiffel non esiste è, a nostro avviso, un ottimo esempio di self publishing di qualità superiore.