Io, l'Olandese volante
Rossella Romano
Vorrei…
Non dover aprire gli occhi.
Vorrei…
che il mormorio del vento, lo scricchiolio del legno nero, irrigidito da secoli di tempeste, lo sciabordio dell’acqua contro i fianchi della nave non avessero il potere di destarmi.
Mai più.
Nel buio confortevole delle mie palpebre serrate inspiro a fondo lo spirito del mare, l’odore salmastro dell’aria che, a queste latitudini, ferisce come una nube di spilli le narici, i polmoni… l’anima.
Ma non devo parlare di questo.
Le leggende pagane raccontano di sirene capaci, con il loro canto, d’irretire gli incauti marinai, ma il mare stesso fu la mia sirena. Il suono delle onde che accompagnava ogni istante della mia esistenza, persino nel sonno. L’orizzonte che aveva un solo confine: quello della costa. I termini marinareschi che sentivo gridare ogniqualvolta un vascello lasciava il porto. Li ripetevo, li arrotolavo sulla lingua, arrampicandomi sugli alberi e immaginando che le foglie fossero vele, che il vento le gonfiasse per portarmi… dove il mio spirito avventuroso avrebbe trovato di che cibarsi.
Oh, ne ho avute di avventure, da allora. Tante da saziare interi eserciti. Il mare si rivelò presto per quel che era: una sirena dall’anima nera, capace di ridurre un uomo nel fiore degli anni a un bambino smarrito, impaurito. Ogni volta che vedevamo sparire la costa la mia irrequietezza trovava pace, ma dentro di me cresceva l’orrore di una situazione… innaturale.
Ormai sapevo cosa fare, in ogni momento. Conoscevo le stelle di entrambi gli emisferi e le usavo per orientarmi; mi arrampicavo come se a sorreggermi e a impedirmi di cadere avessi la mano di un angelo custode; interpretavo vento e nuvole per prevedere il tempo; mi tenevo in equilibrio anche quando il ponte, ondeggiando, s’inclinava più dei gusti sessuali dei marinai ricercati in troppi porti.
Ma non bastava.
Perché le stelle erano innumerevoli, e fredde, e distanti, e indifferenti al mio destino.
Perché quando sparivano, rapite da un velo luminescente di nubi, e il vento portava fino a noi l’odore della tempesta in procinto di abbattersi, sentivo che prima o poi sarebbe arrivata l’onda capace di trascinarmi giù dal ponte, nell’abisso nero, in quel regno senza aria, né luce, né speranza, abitato da creature tanto grandi ed estranee da mozzare il respiro al solo vederle.
Cominciai a cercarla, la paura che sentivo crescere, anche negli occhi dei miei compagni. E la trovai. Era nascosta molto in fondo, dietro le pupille lucidate dall’alcol, spezzava le loro risate e i canti stonati che il frastuono della tempesta riusciva sempre a sovrastare, non importa quanto forte li gridassimo. Quel pozzo nero di orrore, dato da un orizzonte sempre troppo vasto, dall’aver osato inoltrarci in un mondo che non ci apparteneva, risiedeva nel profondo degli occhi di ognuno di loro e, quando diventai capace di riconoscerlo, non seppi più vedere nient’altro.
Ma invece di accettarlo e di conviverci, come facevano tutti, invece di dimenticarlo e racchiuderlo nello scrigno segreto della mia anima, lo coltivai. E quando fui convinto che fosse cresciuto abbastanza decisi di affrontarlo. Dicono che Dio mi abbia maledetto perché lo sfidai a inghiottire la mia nave, gettandomi nel gorgo di una tempesta invalicabile. Dicono che io sia venuto a patti con il diavolo in persona, che rese il mio veliero capace di solcare i mari come se vi volasse sopra, in cambio della facoltà di trascinare la mia anima all’inferno, quando fossi morto. Ma né Dio, né il diavolo, né tantomeno il timore di perdere il carico e con esso i miei averi terreni furono la causa della mia rovina. Dell’eterno vagare cui sono condannato, senza mai trovare un porto che mi accolga.
Io ero solo troppo impaurito. Troppo timoroso di dover infine soccombere all’orrore, riconoscerlo più forte di me e ammettere che ero davvero quel che sentivo di essere: un bambino smarrito, inerme e solo.
Mai tanto solo quanto sei ora, Olandese, dice la Voce.
«Hai perfettamente ragione» rispondo, e finalmente apro gli occhi.