Alice ex machina e altre storie oltre lo specchio
Olga Gnecchi e Gianluca Ingaramo
1. Tutto ciò che muore
Reale.
Il fiocco di neve trasportato dal vento, appena caduto sulla lente dei miei occhiali. Questo è reale. Sembra un diamante in miniatura e si scioglie in una lacrima che riga il vetro. Ne scendono altri, come cristalli di ghiaccio, si depositano al suolo e lì attecchiscono, andando a imbiancare erba e pietrisco tutto intorno.
Ogni volta che espiro, l’alito si condensa in un soffio di vapore acqueo. Anche questo è reale. Mi ricorda quanto vorrei una sigaretta: ne avverto il bisogno, pure se non ne accendo una da anni. Ho smesso per evitare le costanti ammonizioni di Stefano sul fatto che facciano venire il cancro. Ma adesso riuscirebbe a scaldarmi, a creare una sorta di guaina catramata più efficace nell’isolarmi dal gelo rispetto al bavero del cappotto sollevato a ripararmi dal vento.
Il mio nome ripetuto da una voce flebile, in tono d’invocazione. Quello no, non è reale. Non può esserlo. Davvero? Esiste solo il fastidioso chiacchierio tutt’intorno. Persone che continuano a parlottare, quasi formassero un coro per accompagnare il raschio di cazzuola che liscia la malta appena gettata, subito prima di posare un mattone sopra l’altro. Continuo a sentirmi chiamare: “Alice, Alice…”
«Alice, ti faccio le condoglianze» qualcuno mi sfiora il braccio, riconosco un tocco delicato ed esitante almeno quanto le parole.
«Grazie di essere venuta» è meccanica la risposta, frutto di un’abitudine consolidata alle buone maniere, le stesse che mi inducono a sopportare il contatto fisico, oppure a mantenere il distacco nel rispondere a frasi di circostanza.
«Era così giovane» intanto vorrei solo che si facesse silenzio.
Che senso hanno questi discorsi?
«La vita sa essere ingiusta, certe volte».
Non riesco a trovare parole per rispondere, è come se mi mancasse l’aria.
Zitti, zitti, state tutti zitti! Fate silenzio e tornatevene a casa, maledetti idioti, perché ho paura di perdere contatto con quella voce. Possibile che non la sentiate pure voi, che sia soltanto nella mia testa? “Alice, Alice…”
«Alice, come stai? Sembri così pallida» mi sento afferrare per il braccio, la mano è cambiata. È di qualcuno decisamente più ardito della signora di prima, che sembra intenzionato a scuotermi dal mio torpore, con le buone o con le cattive.
Lo stanno sotterrando vivo, come credete che possa stare?
Odio l’assurdità di certe domande, mi volto con uno sguardo che intuisco infuocato, considerato che la presa diventa incerta. Ma trattengo la risposta.
Non posso formularla ad alta voce. Non del tutto.
«Non sto bene, forse ho solo bisogno di essere lasciata in pace».
Momento imbarazzante, ma in fondo non m’interessa. Non li ho chiamati, né voglio trovarmeli tra i piedi. Non adesso.
Devo concentrarmi per riuscire a capire, in mezzo a tutto questo casino, se tu puoi essere ancora vivo: invocazioni d’aiuto, occhi aperti e pulsazioni alle stelle. Immagino dita che arpionano l’imbottitura di velluto e unghie che stridono contro il coperchio della bara. Devo stare calma. Fare un lungo respiro, ancora uno…
Perché mai dovrei preoccuparmi di rispondere a quegli idioti, che continuano a ciarlare imperterriti, quasi fossero al mercato?
Mi impongo di contare mentalmente fino a dieci, come insegnavano da piccoli. Se davvero mi mettessi a urlare senza ragione durante la cerimonia funebre, di certo mi prenderebbero per pazza. Mi avvicino al loculo, facendo un consapevole sforzo di incedere con dignità nel reggermi sulla stampella.
«Posso avere un momento di raccoglimento? Mi conceda qualche minuto».
Silenzio.
Ma certo, dopotutto era facile metterli a tacere.
Il necroforo s’interrompe, scostandosi con rispetto, e cala un improvviso silenzio tra i convenuti. Accarezzo la fila di mattoni, poi avvicino la testa a quella parete che ci separa, fino ad appoggiare l’orecchio. Sembro inconsolabile e lo sono. Ma ne approfitto anche per ascoltare rumori provenienti da dietro, un brivido gelido a scorrermi lungo la schiena.
Come vorrei che tu fossi qui con me. Mi metto in ascolto.
Stacco e torno ancora al momento dell’incidente. Su Virgin Radio passa “Crazy” degli Aerosmith,
la voce di Steven Tyler irrompe nel silenzio cantando del tipo di amore che schiavizza un uomo, portandolo dritto fino alla tomba. Ogni volta seguiamo il coro con le nostre voci stonate, impazzendo un pochino pure noi come il cantante del gruppo. Alzo il volume.
Per ironia del destino, pure il mio lui si chiama Stefano. Dice di impazzire per me in egual misura e non ho mai avuto ragione di dubitarne. Anzi devo correggermi: in questo momento, anche se continuo a parlarne e pensarlo al presente, l’amore della mia vita non sta affatto cantando, seduto in macchina dal lato guidatore. Lui è finito dritto alla tomba, io sono ancora una volta persa nei ricordi.
Sono quasi le tre di notte, il venerdì sera si è fatto sabato mattina, e a quest’ora per la provinciale non passa mai nessuno. Storpiamo all’unisono la canzone, fermi al primo semaforo, che segna l’ingresso nel centro abitato. Avverto i suoi occhi addosso e sentendoli cercare i miei mi volto a ricambiarne lo sguardo. Usciti dalla pizzeria, siamo andati in un altro locale e abbiamo fatto tardi, trattenendoci fino all’orario di chiusura e continuando a parlare dei nostri progetti insieme. Mi posa la destra sul ginocchio, sfiorandolo con una carezza. Il semaforo è verde e lui riparte. Mi dice qualcosa ma non riesco a capire, con il volume dell’autoradio così alto. Luci abbaglianti arrivano da sinistra. Immagino voglia ricordarmi che mi ama alla follia, mi pare ovvio, e nulla sarebbe più adatto in un momento del genere ma, invece di assicurargli che è ricambiato, caccio un urlo con quanto fiato ho in corpo. Non riuscirà mai a evitare l’impatto. Porto le mani sul viso: non voglio vedere, non voglio vedere, non voglio vedere…