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L'alba è d'argento

Ilaria Mainardi

 

Quel giorno il cielo aveva proprio deciso di pisciarci sulla testa, e inzupparci fin dentro le ossa di quell’umidità sporca e puzzolente. Gocce fitte, pingui, battevano e rimbalzavano sulla strada ingombra di automobili, di bus e di pedoni impazziti che suonavano l’acqua al ritmo di una jam session snervante. Ogni schiaffo al vetro picchiava anche sulla mia faccia, senza però destarmi da un torpore lungo almeno dieci anni, da quando quel 24 ottobre di merda aveva deciso, senza chiedermi il permesso, che non sarei stato più lo stesso uomo. Guardavo la pioggia e mi sentivo come ipnotizzato: potevo correre di sotto a bagnarmi la testa, a farmi pungere i sensi da quegli spilli d’acqua, oppure potevo restare lì, fermo a osservare, al riparo apparente dalle perturbazioni, come sempre.

Non mi ricordo quando ho cominciato a dormire in agenzia. Forse da quando Buster ha preso a lasciare sotto il banco, di nascosto, ogni lunedì, qualche bottiglia buona per me. Magari invece da quando Trouble Gary mi aveva chiesto, piuttosto dovrei dire intimato, di finirla di appisolarmi nella sala polverosa del suo cinemino di seconde visioni, senza pagare il biglietto. In quel piccolo cinema, in passato gestito dalla sorella di mia madre, il tempo sembrava essersi fermato a prima della guerra. Dal casottino dei biglietti si accedeva alla sala, attraversando un lungo corridoio, tappezzato di vecchie locandine, ingiallite per l’umidità e coi bordi arricciolati. Solo a un paio era toccata miglior sorte, e la collocazione, bene in alto, sopra le indicazioni per le latrine, ne sanciva la preminenza, almeno spaziale e cinematografica, rispetto a tutte le altre. Su una di esse, in basso a destra, si poteva scorgere uno sghembo scarabocchio, fatto con la penna: qualche divo, anni prima, doveva essere transitato per sbaglio di là. La mia preferita ero invece riuscito a prenderla di nascosto: la locandina di Quarto potere campeggiava nel mio rifugio, proprio dietro la scrivania, come se si trattasse di un pregiato ritratto di famiglia.

In sala si contavano cento posti a sedere, meglio, novantanove, dato che una poltroncina laterale, divelta durante una rissa era stata sostituita da un panchetto bassissimo e dalla seduta ruvida come una grattugia: immagino uno sgabello della berlina per gli avventori più rumorosi. Le poltrone che ancora resistevano erano ricoperte di velluto rosso, spesso e maleodorante, chiazzato da residui di cibarie e bevande, poco probabilmente analcoliche.

Ne erano trascorsi di anni da quando, ragazzino, potevo nascondermi in mezzo ai tendoni già lisi, impregnati del pungente odore del tabacco, e osservare quell’uomo che se ne stava sempre seduto al centro della terzultima fila, durante il primo spettacolo della domenica. Era molto attraente, o forse, a voler essere precisi, possedeva una di quelle facce che non consentono disattenzioni: la stessa luce del proiettore lo baciava, spudorata, con l’ardore che avrebbe dovuto concedere soltanto allo schermo cinematografico. Così il viso si faceva lascivo territorio per un duello di bagliori e ombre, come un dipinto straziante, una specie di grido, strozzato prima di poter uscire dalla gola.

Se ne stava rannicchiato, costretto nella poltroncina, in una giacca nella quale le sue forme stentavano ad adattarsi, e aspettava come d’abitudine che i titoli di coda fossero terminati, per alzarsi e tornare alla malinconia che celava dietro grandi occhiali dalle lenti fumé, decisamente inadatte alla cupa circostanza.

Sembrava a dire il vero tutto inadatto, troppo stretto, per quell’uomo, forse reduce dai fasti di una serata alcolica durata qualche decennio, o magari dall’eterna sbornia del talento che lascia infine la bocca arsa, vogliosa, mai appagata.

Negli ultimi tempi mi sedevo proprio nel suo posto e, prima che il sonno portasse dove voleva i miei pensieri, mi domandavo che vita avesse fatto, che vita facessi io.

Forse però, a essere proprio onesto con me stesso, me ne stavo in agenzia da quando a casa non c’era più nessuno ad aspettarmi.

Oh, al diavolo!

Come se m’importasse qualcosa di queste smancerie! Il divano era comodo, il più comodo sul quale avessi mai appoggiato le terga: tanto basti.

Alle sei e mezzo chiudevo la porta a doppia mandata e smettevo di rispondere al campanello, arrugginito per il disuso. Prendevo un bicchierino e mi buttavo, pancia all’aria, sul sofà, a fissare il soffitto da tinteggiare al più presto, a pensare a qualcosa di vitale che un momento dopo non ricordavo più, a perdermi nelle note di Ticket to Ride che stridevano da un vecchio giradischi. Ci sono cose migliori, più urgenti, da fare in questo mondo, lo so. Ma era così che passavo il tempo, nell’autunno del 1966.

Erano da poco passate le dieci, lo diceva la pendola mezza scassata che troneggiava vicino al divano. L’avevo comprata a St. Luke’s, in un negozio dell’usato che non vedeva l’ora di liberarsi di quel rottame. Invece a me piaceva, mi ricordava me stesso: la carcassa di qualcosa che non era stato poi troppo male. Era passato un secolo, o così mi sembrava.

I minuti, quella sera, quel 24 ottobre di dieci anni dopo, trascorrevano lenti e sembravano seguire il ritmo della pioggia: tic tac tic tac. A Londra tutto sembra sempre seguire il battito cadenzato della pioggia: lord e criminali, cagnolini ammaestrati e volpi selvatiche. E l’umidità malsana di questa città corrode il fisico e l’animo. Ci rende flaccidi, viscidi e stupidi.

Erano anni che dicevo di volermene andare: chiudere Pequod – nomen omen, accidenti a me – vendere la licenza a qualche stronzo disposto ad acquistarla a buon prezzo e svernare all’estero, lontano da queste strade nauseabonde, dai cadaveri di morti ammazzati, dall’odore di vomito e polvere da sparo. Eppure, sapevo che non l’avrei mai fatto. Quando un uomo trascorre la gran parte della propria vita con la merda fino al collo, nella merda ci impara a sguazzare. Magari gli piace pure, che ne so. La merda puzza di merda anche se l’odore acre, a forza di respirarlo, ti corrode l’olfatto. Però mi piaceva l’idea di non dover fingere di essere migliore di quanto non fossi. Quelli come noi, un po’ reietti, ma non fino in fondo, godono della vista che si ha nel limbo: da una parte il paradiso e poco distante l’inferno più nero dei dannati.

Leggere era impossibile, in serate così. Mi avvicinai comunque alla libreria di legno rossastro. Era talmente stipata di libri che qualche scaffale sembrava sul punto di cedere. Scelsi con difficoltà un volume, ma non riuscii neppure ad aprirlo, quindi lo rimisi al suo posto. Era uno dei libri che preferivo, Billy Budd, ma neanche Melville quella sera andava bene per me. E dire che per molto tempo la lettura era stata una delle mie più grandi passioni. Oltre al whisky e alle macchine sportive che non potevo permettermi, ovviamente. Ma quello per i libri era senza dubbio l’amore più grande, pericoloso, come tutti i grandi amori.

E allora camminavo lentamente dalla scrivania alla finestra, dalla finestra alla scrivania. Ogni tanto dalle scale giungevano rumori di passi concitati, risate sguaiate di uomini ubriachi e risposte civettuole di prostitute in guêpière e vestaglia. Erano i clienti dell’albergo a ore che da un paio d’anni aveva preso possesso del secondo piano, proprio sotto ai miei piedi. Quando quel posto aveva aperto, ne ero stato infastidito. Avevo pensato che mi avrebbe intralciato gli affari, che i miei clienti non l’avrebbero apprezzato. Poi avevo compreso invece che la gran parte dei disperati che bussano alla mia porta è lo stesso tipo di persona che passa le notti alticcio nei postriboli. Inoltre le puttane mi piacciono: sono tra le poche persone che si guadagnano da vivere in modo onesto.

Insomma, era una notte come tutte le altre, non fosse stato per certi ricordi. Poi, però, trillò il telefono.

Non ero abituato a sentirlo squillare di sera, e sulle prime quasi non capii da dove provenisse quel rumore. Ero un po’ intontito dalla pioggia e dall’alcol. Soltanto dopo qualche secondo riuscii a individuare l’apparecchio che era ovviamente nel posto dove è sempre stato. Sulla scrivania, accanto al blocco nero, impolverato, e alla lampada dalla luce troppo gialla.

«Bennett» dissi alla cornetta.

Dall’altra parte del filo si sentiva soltanto il fruscio della linea disturbata.

«Pronto. Chi parla?» riprovai.

Ancora il fruscio, però stavolta riuscivo a sentire distintamente un uomo respirare al ricevitore. Era un soffio pesante, affannoso. Poi udii anche la sua voce. Quasi tutte le parole si perdevano in quel fastidioso rumore di fondo.

«Pioveva forte… Uno sparo…»

Le telefonate notturne non portano mai a niente di buono. Se c’è una regola che ho imparato negli anni è proprio questa. Diffidare sempre dagli uomini che si dicono astemi, dalle donne con una rivoltella nel primo cassetto del comò e dalle telefonate dopo le otto di sera o prima delle nove del mattino.

«La linea è disturbata, cerchi di parlare più piano. O più chiaramente, almeno.»

Glielo dissi senza crederci davvero. La realtà è che tutta la faccenda m’interessava poco. Volevo soltanto capire il prima possibile cosa volesse da me quell’uomo – per curiosità, perché magari poteva spuntare fuori un po’ di denaro – e poi tornare in santa pace al mio whisky.

«Era buio… pioveva…»

«Questo l’ho capito.»

Altre scariche elettriche. Per un attimo, pensai che la linea fosse caduta a causa del forte temporale. E, visto tutto quello che è poi successo, sarebbe sicuramente stato meglio se fosse andata così. Alcune sillabe emersero infine dal gracchiare della cornetta. Erano quattro sillabe che conoscevo bene. Molto bene.

«Omicidio» disse la voce. «Ho assistito… omicidio Albert.» Quando ti chiami George Bennett i guai sanno sempre come trovarti.

«Non sta parlando con il centralino di Scotland Yard. Le do un consiglio: chiami la polizia, faccia la sua bella denuncia e mi lasci in pace.»

esci

L'alba è d'argento

Ilaria Mainardi

L'alba è d'argento
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Il detective londinese George Bennett è solito affogare il dolore in un paio di bicchieri di whisky. Ma la sera del 24 ottobre 1966, esattamente dieci anni dopo un evento che ha cambiato il corso della sua esistenza, una fitta dolorosa viene provocata da un sinistro richiamo: Silverwood.

Il viaggio che decide di intraprendere verso quella località, a cui è legato da antichi ricordi, porta Bennett a confrontarsi, non soltanto con un vecchio caso, chiuso troppo in fretta, ma soprattutto con l’elaborazione di un passato con il quale, obnubilato dall’alcol e straziato da sensi di colpa che crede inestinguibili, non ha ancora avuto il coraggio di fare i conti fino in fondo.

L'autrice

Ilaria Mainardi è pisana di nascita e cosmopolita per viaggi mentali. Da sempre appassionata - innamorata - di cinema, lo ha studiato a lungo per cercare di capirlo e non c'è riuscita. Paradossalmente (paradossalmente?), da questa impasse esegetica è emerso un amore ancora più solido. L'altra sua piú grande passione riguarda la drammaturgia in lingua inglese (da William Shakespeare a Martin McDonagh, passando per Enda Walsh e David Mamet). Quando può, vola a Londra e salta da un teatro all'altro, beandosi di quella bellezza.
"L'alba è d'argento" è il suo primo romanzo.
Ancora reperibili, per quanto riguarda la produzione narrativa, anche la favola per bambini, illustrata da Andrea Guglielmino, "Mastro Tasso e il suo cappello" (MdS Editore) e il racconto lungo, "Il caffè di Sheffield" (Officine Editoriali).
Sogna di vincere la Palma d'Oro a Cannes per un film sceneggiato a sei mani coi fratelli Coen e di bere un caffè con David Lynch.

Perché l'abbiamo scelto

L'autrice tesse in modo impeccabile una storia misteriosa e intrigante, con un’ambientazione che ci ricorda i romanzi e i film polizieschi degli anni '70, quando la narrazione non era mitigata dal politicamente corretto e tutto era permeato dal fumo delle sigarette e dall’odore stantio del whisky da poco prezzo.

Personaggi convincenti, con la giusta dose di stereotipo che richiede il genere, e una trama avvolgente dal finale pirotecnico, sono sicuramente i punti di forza di questo romanzo.

L’ottima padronanza della lingua italiana e la fluidità della scrittura, oltre che la cura nel confezionare il prodotto, completano le qualità di questo noir, che senza ombra di dubbio sarà capace di conquistare tutti gli appassionati.