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Farrokh Bulsara che divenne Freddie Mercury

Antonio Universi

 

«La maggior parte di quello che faccio è fingere. È come recitare: vado sul palco e fingo di essere un macho e tutto il resto. E una volta giù, fingo ancora, fingo per amore… Quello che non sai, è da quanto tempo interpreto questa parte. Ai tempi del collegio mi chiedevo se anche i miei compagni sentissero quel bisogno di comprendere se stessi: loro sembravano mostrare la propria personalità con una tale naturalezza, mentre io dovevo recitare, costretto a un continuo sforzo mentale e fisico. Poi, con il tempo, mi convinsi che tutti affrontassero la vita così, e quindi anch’io avrei dovuto recitare la mia parte senza poter mostrare mai, neppure una volta, il mio autentico io. Ma dopo tutti questi anni, finalmente ho capito di avere la possibilità di scegliere, perché la cosa non riguarda più solo me: potevo non dirtelo, ma tu hai diritto alla tua vita».

«Come tu hai diritto alla tua».

*

Londra, Feltham, 1966.

Le note di Blue Suede Shoes e la voce di Cliff Richard si sprigionavano da un giradischi Dansette, cimelio dei tempi economicamente più floridi della famiglia Bulsara.

«Vuoi abbandonare la Scuola d’Arte?» chiese Kashmira, alzando solo gli occhi e cercando di tenere fermo il capo gravato da un basco sproporzionato rispetto alla sua testa.

«Non muoverti per favore, Kash!» esclamò di rimando suo fratello, «Credi che stia qui a perdere tempo?»

«Perché non diventi avvocato come vogliono mamma e papà?»

Lui alzò gli occhi al cielo e sbuffò.

«Non lascio l’Ealing, voglio semplicemente cambiare indirizzo di studio» le rispose senza alzare gli occhi dal foglio, «ma anche così potrò continuare a lavorare nel campo dell’arte, che è l’unica cosa che mi interessa».

La ragazzina rimase perplessa, non aveva capito molto, ma tentò di restare immobile nella posizione in cui il fratello la stava ritraendo, di profilo e affondata nella poltrona del soggiorno di casa, le braccia incrociate all’altezza del ventre e le gambe accavallate in un paio di pantaloni fiorati, il piede destro che portava il ritmo della musica.

«Va bene, va bene, però dopo mi aiuti a fare i compiti… E comunque dovresti essere più attento alla moda. Mi spieghi cosa significa quel taglio di capelli?» lo interrogò in tono di rimprovero mentre lui era intento a completare il suo schizzo, abbozzando con rapidi tocchi di matita il resto dell’ambiente in cui si trovava la sua modella: il soggiorno di casa.

«Non ti nascondo che quando usciamo insieme mi fai vergognare!»

«Ah! Allora è per questo che mi cammini sempre dietro, e a una certa distanza? E io che pensavo di andare troppo veloce per te…»

Farrokh Bulsara aveva ventun anni. Era arrivato in Inghilterra da Zanzibar nel 1964 con la sua famiglia e, insieme alle valigie e ai ricordi, aveva portato con sé uno stile da perfetto studente di collegio inglese, quello che aveva frequentato negli anni della sua adolescenza in India.

Lì tutti lo chiamavano Freddie, nome cristiano e inglese, adottato da insegnanti e amici al posto del suo originale, tipico dell’antica comunità Parsi a cui apparteneva la famiglia.

Per qualche tempo aveva mantenuto quel look costituito da pantaloni bianchi a sigaretta corti alla caviglia, sempre perfettamente stirati e con la riga ben definita, ai quali abbinava spesso una giacca amaranto sul cui taschino era cucita una fenice, e capelli impomatati e pettinati all’indietro con annesso ciuffo sparato sulla fronte, secondo lo stile, ormai demodé, dei suoi miti musicali, Elvis Presley e Cliff Richards.

Ma, frequentando la Scuola d’Arte, non gli ci volle molto tempo per decidere di conformare il proprio abbigliamento a quello dei suoi coetanei, cosa che condusse immediatamente suo padre e sua madre nella schiera di tutti quei genitori che definivano i propri figli ‘capelloni’, e che da questi erano a loro volta apostrofati ‘giurassici’.

I capelli di Freddie, però, neri, molto folti e tendenti al riccio, erano in una fase critica, di una lunghezza intermedia difficile da gestire, che solo estenuanti lotte a colpi di spazzola e phon riuscivano a domare in una scriminatura laterale a cui faceva da diadema una frangetta cortissima.

«E così ti vergogni di me?» tornò sulle parole di sua sorella, quasi incredulo. Era particolarmente suscettibile e pignolo riguardo al suo aspetto. La guardò a lungo in modo torvo ma alla fine «Ci sto lavorando, mia cara» le concesse con un sorriso.

La puntina del giradischi stava terminando la sua corsa nel solco del 45 giri.

Kashmira, detta Kash, bofonchiò qualcosa poi ritornò immobile. Era sei anni più giovane del fratello, ciononostante la somiglianza con lui era evidente: da mamma Jer avevano preso il fisico minuto e la pelle olivastra, ma Freddie ne aveva ereditato anche gli incisivi sporgenti; inoltre entrambi amavano trascorrere ore e ore davanti allo specchio del bagno, luogo molto conteso e per questo spesso teatro di liti furiose.

A Freddie piaceva osservarsi e studiarsi nei minimi dettagli: i suoi centosettantacinque centimetri erano ben distribuiti; i lineamenti del viso erano regolari e delicati. Poteva ritenersi abbastanza soddisfatto di sé finché lo sguardo non gli cadeva su quei dentoni che, in collegio, gli avevano procurato il soprannome di Bucky. Per fortuna quel nomignolo era rimasto in India assieme ai suoi ex compagni e, poiché non voleva simili appellativi anche nella nuova vita, aveva sviluppato la tendenza a mordersi il labbro superiore, quasi a tirarlo giù per coprire gli incisivi. Quando, poi, non poteva proprio trattenere una risata fragorosa, la sua mano partiva in soccorso a nascondergli la bocca, ma erano occasioni veramente rare. Freddie cercava di non ridere mai, neanche e soprattutto nelle fotografie: da quando erano arrivati in Inghilterra, infatti, non ce n’era una che lo ritraesse sorridente, sfoggiava sempre una strana smorfia come di chi stesse nascondendo tra le labbra serrate un boccone proibito.

«Freddie…» lo richiamò Kash rimanendo immobile, «e sul serio andrai a vivere in un’altra casa?»

«Non sarebbe tanto lontano da qui, sai?» la tranquillizzò poggiandosi la matita sul mento, e per un attimo smise di disegnare.

«Vorrei trasferirmi a Londra, nel quartiere di Kensington».

A quel tempo Londra era l’ombelico del mondo, vibrante d’energia nuova, nutrita da forze creative che vi si riversano da ogni dove riempiendo i teatri, le gallerie, le scuole d’arte. E poi c’era Kensington, il cuore pulsante della città, il quartiere degli artisti, della Pop Art, della musica, della pubblicità, della moda, dei fotografi e delle modelle, della famosa boutique Biba e del Kensington Market, dove potevi incontrare tutti i personaggi del jet set.

«Ma proprio adesso che siamo di nuovo tutti insieme!» piagnucolò la ragazzina destandolo dal suo fantasticare ad occhi aperti.

Per un momento a Freddie tornò in mente l’inquietudine dovuta alla separazione dalla famiglia quando, a otto anni, i genitori lo avevano costretto a lasciare Stone Town per completare la sua educazione in India, allievo del miglior collegio privato maschile, con un programma di studi esclusivamente in inglese.

Di quel che aveva passato lì negli otto anni successivi, così piccolo e solo, separato da lei e dagli affetti familiari, delle notti passate a piangere fino a sfinirsi nel sonno in quella camerata che condivideva con una ventina di bambini, del risentimento che aveva provato nei confronti dei suoi per averlo allontanato da casa, non aveva mai fatto parola con la sorella.

E quando, finalmente, era tornato a casa, la rivoluzione scoppiata a Zanzibar per l’indipendenza dall’impero britannico li aveva costretti a trasferirsi in Inghilterra.

Quanto tutto questo gli pareva lontano, adesso…

Erano trascorsi già più di quattro da quando i Bulsara avevano lasciato Stone Town per approdare a Feltham, un sobborgo di Londra, dove risiedevano in una casetta bifamiliare al numero 22 di Gladstone Avenue, una stradina piuttosto tipica, su cui si affacciavano fronteggiandosi tante dimore più o meno uguali.

Freddie firmò lo schizzo ormai completato e quella fu la fine della loro conversazione. Richiuse con decisione il blocco in cui aveva inserito il disegno, lo strinse al petto, poi si alzò e imboccò la porta che immetteva nel corridoio; salì la breve rampa di scale che conduceva alle camere da letto, girò a sinistra e arrivò nella sua piccola stanza: entrò, si chiuse la porta alle spalle, gettò il blocco da disegno sulla scrivania sotto la finestra, e si accovacciò, spalle al muro, sulla moquette. Tutt’intorno gli schizzi di Elvis, Liz Taylor nei panni di Cleopatra, Paul McCartney e Cliff Richard gli sorridevano dalle pareti bianche verniciate di fresco.

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Farrokh Bulsara che divenne Freddie Mercury

Antonio Universi

Farrokh Bulsara che divenne Freddie Mercury
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Farrokh Bulsara arriva da Zanzibar, estrema propaggine dell’impero britannico ormai in dissolvimento, deciso a immergersi nel flusso vitale di una Londra che, a metà degli anni ’60, è un dirompente caleidoscopio di mode e tendenze artistiche, inseguendo il sogno di poter vivere d’arte.

La sua storia si intreccia a quella della band di cui diventa cantante e propulsore, convinto che la musica li salverà.

E la storia diventa viaggio, un viaggio che, tra dolorose cadute e battute d’arresto, sconfitte brucianti e trionfi epocali, lo condurrà a scoprire la forza vivificante e potentemente feconda dell’amicizia.

Ma anche, e inevitabilmente, un viaggio amaro e tormentato dentro se stesso, alla ricerca del suo essere più autentico, che lentamente gli si rivelerà sempre più audace e possente, proprio come la sua voce, e che alla fine lo porterà a conquistare il successo e a perdere l’amore.

Il viaggio che condurrà Farrokh Bulsara a diventare Freddie Mercury.

L'autore

Antonio Universi nasce a Manfredonia nel 1975. Incontra la scrittura tramite il giornalismo e ne approfondisce l’uso tramite percorsi accademici e corsi di drammaturgia, sceneggiatura cinematografica e di scrittura breve e creativa.
Da anni custodisce e alimenta la fiamma della sua passione per i Queen.

Il suo sito web


Perché l'abbiamo scelto

Antonio Universi scatta un'interessante fotografia di Freddy Mercury che ci mostra quasi con dolcezza, ma sempre senza troppa indulgenza, l'uomo prima del successo, con una storia che mescola sapientemente finzione narrativa e realtà, andando ad attingere a vita privata e cronaca, quando il cantante dei Queen era ancora impegnato a scoprire se stesso e il suo talento, a caccia di affermazione, tra errori, difficoltà, disillusioni, rabbia e amore.

Il romanzo è sostenuto da una scrittura agile e intelligente, asciutta ed esaustiva, precisa e tagliente come un rasoio, tipica della narrazione che sa catturare il lettore ed imbrigliarlo dalla prima all'ultima pagina.

Questo è un libro per tutti: per quelli che conoscono Freddy Mercury e per quelli che non lo hanno mai visto infiammare il pubblico da un palco; perché tra queste pagine il lettore troverà ciò che è rimasto fuori dai riflettori del successo, e che nessun concerto e nessun video ha mai raccontato. Tutto quello che ha fatto di un uomo un mito, e che ha trasformato Farrokh Bulsara in una leggenda del rock che non morirà mai veramente.