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Un biglietto di sola andata

Riccardo Alberto Quattrini

Ero partito di mattina presto da Como, volevo evitare il traffico, almeno fino al confine.

Avevo fatto il pieno, caricato la valigia, dato le ultime disposizioni alla portiera Ivana che, per qualche inspiegabile ragione mi aveva abbracciato e aveva pianto. Sesto senso? Non lo saprò mai. La giornata era fredda ma limpida, a febbraio era sempre stato così: freddo ma bello. Avrei fatto colazione al primo Autogrill sull’autostrada; colazione, un caffè sarebbe stato sufficiente. Continuavo a pensare se avevo fatto tutto, se non avevo dimenticato nulla, se il notaio Salvioni avrebbe rispettato tutte le disposizioni che gli avevo indicato. Che strano, pensai, mi sto preoccupando di qualcosa che in capo a due giorni non avrà più senso. Era normale, il genere umano, contrariamente alle bestie che vivono d’istinto, ha la razionalità, e questo ci fa pensare, ragionare. Già ragionare. Io mi ero perso nei ragionamenti, nel valutare la situazione, il da farsi. Mesi e mesi, prima di confidarmi con il mio miglior amico, Lupo Mastronardi, avvocato come me, lui civilista, io invece avevo scelto una specializzazione che mi era sembrata più facile, meno impegnativa: divorzista. Mi sbagliavo, forse perché non ero mai riuscito a distaccarmi professionalmente da ogni caso che mi era capitato di patrocinare.

Probabilmente era perché il mio matrimonio con Ginevra funzionava a meraviglia. Un innamoramento iniziato sui banchi del liceo, in terza liceo per l’esattezza. Quando entrò in classe, e la professoressa di latino ce la presentò, io ebbi un tonfo al cuore. Bella, mora, i capelli raccolti dietro la nuca, neri come neri erano gli occhi profondi, che se li guardavi finivi per cascarci dentro e ti perdevi in un labirinto senza uscita.

«Questa è Ginevra Di Muzio» disse la professoressa, «viene da Matera il paese dei sassi.»

Subito pensai che fosse un paese terremotato. Per i due anni successivi, fino alla maturità, nemmeno mi degnò di uno sguardo, salvo per le versioni di latino e storia dell’arte, materie in cui ero ferratissimo. Lei si era messa assieme a uno di quinta, un ripetente, un certo Marco o Marzio, non ricordo bene che, essendo più grande, aveva il vantaggio di possedere la macchina. E con quella se la portava dove voleva. Non seppi mai il perché, né mai glielo chiesi, ma il giorno degli esami di maturità cominciò a parlarmi. Si sentiva preparata e mi chiese cosa avrei fatto dopo, quale facoltà avrei scelto. Così cominciammo a uscire insieme e ci accorgemmo di avere delle affinità. Una di queste era il cinema. Lei amava molto la fantascienza, come del resto anch’io, pertanto non fu un sacrificio rivedere tutta la saga di George Lucas. E poi quelli di John Carpenter, il regista del film da me più amato e rivisto: “La cosa”. Sarà capitato a molti di avere accanto una ragazza di cui si è pazzamente innamorati, di prenderle la mano nelle scene di maggior tensione. Così, quando anche Ginevra un giorno me la prese e la strinse forte, provai un’emozione che, ancora oggi, non riesco a dimenticare.

All’improvviso l’Autogrill.

Fermai la macchina e ne discesi. Un lieve stordimento mi assalì, posai una mano sul tetto dell’auto, inspirai forte e cercai di scacciare quel pensiero. Il caffè era caldo e gradevole. Le persone al banco sorbivano cappuccini, mordevano brioche e addentavano panini; tutto si svolgeva come fosse compitamente scritto. Silenziosi, consumavano, pagavano e se ne andavano per chissà quale destinazione. Qualcuno si metteva a grattare un cartoncino, o comprava biglietti di una fantomatica lotteria, che magari avrebbe dimenticato in un cassetto o nella tasca della giacca, senza sapere mai se la fortuna gli avrebbe sorriso. Io non credo a quella puttanata della fortuna o del destino.

Il destino non influisce nella vita delle persone, per il semplice fatto che non esiste. La verità è che ognuno crea il proprio futuro, ogni giorno, ora, minuto, secondo della vita.

Ogni decisione che prendiamo, dalla più importante a quella più insignificante, ci cambia a nostra insaputa l’esistenza. Il nostro professore di filosofia diceva che ognuno è artefice della propria sorte. Io la sorte, questa sorte, non l'ho mica cercata, mi è capitata. E allora? Parole, tante parole si dicono, poi, quando ti trovi dentro quel tunnel buio, vedi le cose da un altro punto di vista. Destino, sorte, fatalità, non c’entrano un cazzo quando ti colpisce un cancro. Ce l’hai e non lo puoi passare a qualcun altro come nel gioco della Pepatencia.

Aprii la portiera e guardai l’autostrada poco oltre il piazzale. Il traffico era in costante aumento, ma non avevo nessuna fretta, nessun orario da rispettare. Quei momenti erano oramai solo un ricordo anche se non molto remoto. Il telefono, allora, era l’oggetto che più odiavo. Magari ero nel mio studio intento a consultare una pratica ed ecco che suonava.

«Avvocato c’è il signor Listorti sulla due» annunciava la mia segretaria Elisabetta, che per brevità chiamavo Betti, anche se a lei non piaceva; le avevano dato quel nome e con quello voleva essere chiamata. Invece non cercai mai un diminutivo per mia moglie.

Ginevra era e Ginevra restò fino all’ultimo giorno della nostra vita in comune. Come potevo mai trovare un diminutivo per un nome tanto altisonante e bello: Ginevra. Ti vibrava nella bocca e sul palato mentre lo pronunciavi, e quando ti usciva tra le labbra, pareva d’aver proferito una poesia.

«Mi scusi» disse una voce alle mie spalle. Mi girai e mi ritrovai davanti una donna non giovanissima, con un viso sottile e i capelli rossi raccolti alla nuca da un nastrino nero.

Portava occhiali scuri grandi e tondi che le davano un’aria da donna fatale. Indossava dei jeans attillati, una camicetta bianca e un blazer blu.

«Lei se ne intende di auto?» chiese.

«Riesco a malapena ad accenderle» risposi avvicinandomi e sorridendole. «Comunque posso sempre provare.» Salii sulla vettura e provai ad avviarla. Nulla. Sentivo solo un odore intenso di olio bruciato.

«è sicura di avere l’olio del motore a posto?» domandai mentre con una mano sganciavo il cofano.

Era una vecchia Lancia Ypsilon gialla. Tirai fuori l’astina dell’olio, presi da terra un foglio di giornale e la pulii.

«Mi sa tanto che ha fuso» dissi mostrandole l’astina pulita dopo averla infilata nella scannellatura.

«Che destino! E non è neanche mia. Me l’ha prestata un’amica proprio perché la mia è dal meccanico.» Aveva un viso sconsolato.

«E ora come faccio?» chiese mordicchiandosi un’unghia.

«Dove deve andare?» «In Svizzera.» «In Svizzera? Ma non mi dica. E dove di preciso?» «Lugano.» Sorrisi.

«Non ci crederà ma io vado poco più su.» Avrei voluto mordermi la lingua; per un momento avevo scordato che non andavo a fare una gita. E lei notò la mia espressione pentita.

«Che c’è? Non ci va più?» «No, no. Ci vado. è che per un attimo…» dissi cercando di rimediare. «Ha bagagli?» Lei aprì il baule e prese un piccolo trolley.

«Bene. La mia auto e là.» «Carina» commentò ironica quando feci scattare le serrature con il telecomando.

Ho sempre avuto la passione per le Porsche. La mia auto, una Cayman S azzurra metallizzata, certamente la sua porca figura la faceva. Ma ora non me ne importava un fico secco.

«è stato un capriccio» dissi sobriamente. «Almeno presentiamoci, Ridolfo Molteni.» Le tesi la mano, dopo aver sistemato il trolley nel portabagagli.

«Che strano nome: Ridolfo.» «Colpa di mio padre che aveva una passione per i Templari. Ridolfo Riduzzi de Medici fu uno di questi Cavalieri. Lei è…?» «Gianna Lucchesi, in arte Leyla Zilli.» «Cantante?» buttai lì.

Annuì. «Musica soul.» Conoscevo poco la musica straniera. Mi fermavo a Mina, Battisti, De André. Di De André amavamo quasi tutto, anche se Ginevra preferiva i brani dei primi anni, quelli del suo esordio, mentre a me piacevano di più quelli della maturità. Mi ricordai di un concerto a Thiene, avevamo provato un’emozione così intensa che la portammo con noi per diverso tempo.

Salimmo in macchina. La avviai. Poi le chiesi: «Quindi va a Lugano per cantare?» Annuì e si sistemò meglio sul sedile.

«Ed è molto che canta?» «Ho iniziato a tredici anni.» «Accidenti.» «Davvero non mi ha mai visto in tv?» «Dovrei?» «Forse no. Pensavo di essere abbastanza conosciuta» disse fingendo un piccolo broncio.

«Mi dispiace, ma di musica ne ho sempre masticata poca.» «Via, scherzavo. Che razza di musica ascolta uno che si chiama…» «Ridolfo» conclusi per lei. «Di solito musica classica: Chopin, Mozart. Mi rilassa.» Mentivo solo per sembrare impegnato. La menzogna, che non mi era mai appartenuta, negli ultimi tempi era diventata inevitabile. Mentivo per necessità, quando mi domandavano come stavo. Che altro dovevo dire, che mi restavano pochi mesi di vita? Non speravo in una guarigione che, sapevo, non sarebbe arrivata. Quel film l’avevo già visto. L’avevo già visto con Ginevra. Dapprincipio il terrore, e l’angoscia che ti assale.

Nessuno se lo aspetta, anche se ne ha parlato, discusso. Ma, inaspettatamente, accade a te, alla tua famiglia, alla moglie che ami. All’improvviso una sequenza d’immagini s’impossessò della mia testa. Erano i ricordi di ventisette anni di matrimonio. Dopo la maturità c’eravamo persi di vista. Io preso dall’università, lei coinvolta nel divorzio dei suoi. Ginevra aveva scelto di stare con il padre, che per ragioni di lavoro si era trasferito a Torino. La ritrovai molti anni più tardi, quando ormai avevo messo su uno Studio Legale a Como, assieme al mio amico Lupo Mastronardi; lui civilista io divorzista. Lo studio si era avviato molto bene, il divorzio era oramai legge da più di quattro anni, mentre le cause civili erano all’ordine del giorno: per un nonnulla si ricorreva all’avvocato. Ci incontrammo per caso nel febbraio dell’ottantadue. Ero sceso dallo studio per comprare le sigarette e lei stava osservando una vetrina d’abbigliamento. Mi misi alle sue spalle e la guardai riflessa nel vetro in mezzo a due manichini; pareva Pinocchio tra i due Carabinieri. Mi riconobbe immediatamente.«Ridolfo!»

Tutti gli anni in cui c’eravamo persi furono cancellati dalla sua voce. «Che ci fai qui?» domandò.

«Ci lavoro. Ho aperto uno studio nel palazzo di fronte. Sono sceso per le sigarette.»

Da quel giorno ci ritrovammo e cominciammo a uscire.

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Un biglietto di sola andata

Riccardo Alberto Quattrini

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Che strano, pensai, mi sto preoccupando di qualcosa che in capo a due giorni non avrà più senso. L'avvocato Ridolfo Molteni non riesce ancora a staccarsi completamente dalle incombenze e dalla routine quotidiana, anche se ha preso una decisione irrevocabile, una decisione che lo sta portando verso la Svizzera.

E proprio sulla strada che lo porta oltre confine incontra Gianna, una donna che non può salvarlo, ma può capirlo. E forse è proprio di questo che Ridolfo ha bisogno in questo suo viaggio.

L'autore

quattrini

Riccardo Alberto Quattrini nasce a Milano il 3 aprile 1948. Scrive numerosi racconti, e tre romanzi che tiene pronti nel cassetto. Quando nel 2007 vende la sua società, e da piccolo imprenditore diventa a tutti gli effetti, uno scrittore, riprende dal cassetto uno dei tre romanzi, Il Copista che porta a termine e gli viene pubblicato dalla casa editrice Neftasia. Nel 2014 pubblica un secondo romanzo Ombre nere sulla laguna sul portale ZeugmaPad.
Collabora con il sito di giornalismo online Rosebud dove ha scritto numerosi pezzi molto apprezzati.
Inoltre ha pubblicato numerosi racconti che si possono trovare sui vari store: Writer’s dream. Kobo Mondadori, Feltrinelli, Smashwords, Amazon, iTunes. Con Fingerbooks, ha vinto il primo premio con Il buco nel muro.

Il suo sito web

Perché l'abbiamo scelto

Riccardo Quattrini mostra in questo racconto tutta la sensibilità necessaria per affrontare tematiche così delicate. La storia disegna personaggi ineccepibili e sa richiamare un senso di fredda solitudine e nostalgia che non lascia indifferenti, arrivando a smuovere emozioni fin dentro le viscere del lettore.